Silvio Berlusconi: il mio Milan | Una storia senza precedenti

Non solo cinque Coppe dei Campioni e un’aura leggendaria, ma uno dei cicli vincenti più lunghi di sempre: il Milan di Berlusconi ha segnato un’epoca.

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Le cavalcate imprenditoriali di Mister B. si somigliano un po’ tutte, in verità. Quella nel mondo del calcio, merita di essere ripercorsa ancora una volta.

Il Presidentissimo

Parabole cristologiche, in cui il nostro Unto dal Signur, arriva col sorriso spianato, ascendendo al Golgota di turno in pompa magna, con vagonate di quattrini a ricoprire il desco: anche il Milan finì nella sua rete, il pescatore di occasioni fece così un’altra “vittima”. Un vero outsider, cui gli insiders guardavano con malcelata sufficienza, appena sopendo le risatine di derisione, per quel parvenu venuto dal nulla, dalla fortuna misteriosa (quando non di provenienza occulta), che sconvolgeva il banco, deridendo lo status quo.

Quello che rifulgeva di più era la fede incrollabile nelle proprie idee, nella visione delfica di un destino spianato, di un cammino comunque radioso ( cui va aggiunta però una gestione rivedibile del futuro declino). Nonchè una cura maniacale, al limite del parossismo, per i dettagli: uno dei primi rivoluzionari cambiamenti, dopo aver comprato il Milan, fu quella di introdurre la numerazione dei posti di San Siro: “In tempi strettissimi siamo riusciti a convincere l’Inter e il Comune a dotare l’anello inferiore di San Siro di poltroncine numerate”. Potere dei quattrini e di un sorriso a tagliola.

Inizio difficile

Venticinque miliardi, tanto costò il Milan: nel settembre dell’86, la prima stagione del Presidentissimo Berlusconi iniziò con le Valchirie in cavalcata e tre-elicotteri-tre calati dall’alto come avvoltoi. Un blitz in piena regola, una porta sfondata a calci, per entrare a pieno titolo nel mondo pallonaro d’allora, molto paludato, fatto di mezze battute dell’Avvocato Agnelli, di schedine compilate al bar sport e biscardate provincialotte al Processo del Lunedì.

Nella prima estate da capo della baracca, dopo una sconfitta in amichevole a Barcellona, si rizelò per un menu prepartita troppo calorico: “Un Milan competitivo non può mangiare dolci”, disse. “Trovatemi un dietologo”, aggiunse poi serio. Il solito maniaco dei dettagli, eppure ebbe ragione.

Gianni Mura e il mondo del giornalismo sportivo non lo accolsero bene: “Al calcio italiano, a chi s’aspettava molto o qualcosa di buono, Berlusconi finora ha fornito un cattivo esempio”. Esempio che si ripeterà molti lustri dopo, quando discese nel campo della politica (ma questa è un’altra storia, o forse no). Eppure comprò Van Basten, Gullit, Raijkaand, Borgonovo: “È una strategia costosa, ma quanto pagante?”.

Anche Mario Sconcerti non fu generoso: “Non c’è dubbio che Berlusconi abbia sbagliato quasi per intero il suo approccio col calcio. Il suo mestiere è fare il padrone nel senso totale del termine. Ed è questo credo il suo piccolo dramma”. In breve, il Cavaliere venne considerato come quegli sceicchi stupidotti, che nulla capiscono, sprecano quattrini, gettandoli a caso, al  vento del deserto.

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Il Milan dei record

Il primo anno fu di assestamento, con Liedholm in panchina, soldi buttati e risultati deludenti: decisamente in contrasto con lo stile roboante ed ultracafonal, della presentazione, che scimmiottava la grandeur americana; eppure nel punto più basso della stagione (la sconfitta a San Siro contro il Parma, in Coppa Italia) scoppiò la rivoluzione.

Siamo nel 1987: Berlusconi ha una visione, chiama Sacchi, l’artefice della vittoria parmense, quello che ha dominato in casa sua; forse è un azzardo, in fondo l’ “Arrighe” è un semi-sconosciuto, che non ha mai militato (nè da giocatore, nè da allenatore) in Serie A, eppure. Eppure è il seme che mancava, per far germogliare il Grande Milan, quello dei trofei a raffica, delle Coppe dei Campioni a strascico, dei record infranti, uno dietro l’altro.

Sacchi non si tocca

Berlusconi non si limitò a cambiare allenatore, ma ne abbracciò in pieno la filosofia, dimostrandosi un istintivo con premonizioni da rabdomante: l’Arrighe difatti non cambiò solo il Milan, ma l’intero modo di far calcio in Italia, in anticipo com’era di almeno 25 anni. “Qualcuno di voi forse l’anno prossimo non ci sarà, Sacchi invece sì“, amava ripetere ai suoi giocatori, che non sempre ingoiavano senza fiatare il modus sacchiano.

Ed anche se il Berlusca portò nel calcio la sua irrispettosa allergia alla legge (basti ricordare l’affaire Lentini ed i fondi neri a bilancio), con i detrattori che sparavano a bombarda verso un signorotto padronale che aveva drogato il mercato sportivo, bisogna riconoscere che la sua più grande dote (a parte i milioni a tonnellate) è stata la ferma convinzione nelle proprie idee e nelle proprie scelte (sovente vincenti).

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Quella granitica egotimia, con la capacità di non tradire la propria visione anche quando gli eventi paiono avversi: col sennò di poi, una dote che gli sarà utile anche da politico (ahinoi). Allora bastò alla genesi di una squadra indomabile, di talenti a tutto campo, forse la più forte di tutti i tempi. Citando lo Jep Gambardella sorrentiniano, Berlusconi non voleva solo “partecipare alla vittoria, voleva avere il potere stesso di crearla”. E così fu.

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