Fast fashion è sinonimo di moda a basso costo e rapida sostituzione. Ma questo che significa?
Quando una t-shirt al consumatore costa 3 euro, un abito massimo 9, c’è qualcuno che ne paga i costi, c’è un prezzo scaricato su uomini e ambiente.
I grandi marchi hanno delocalizzato da decenni, proprio per abbassare i costi di produzione: in molti paese extra-europei, un lavoratore costa la decima parte di quanto costerebbe un “europeo”.
Shein, la cinese market leader
Leader del settore moda low cost è Shein (oltre il 50% del mercato globale è suo), la multinazionale cinese del fast fashion: nasce nel 2008, da un’idea dell’imprenditore Chris Xu, e in pochi anni arriva ad un fatturato miliardario (nel 2020, circa 10 miliardi di dollari). Nel 2023 il marchio Shein è arrivato a valere circa 60 miliardi di dollari, più di Adidas, H&M e Nike messi insieme. La sua app, a metà 2022, era la più scaricata negli USA, grazie ad un sistema di algoritmi che analizzano le tendenze della moda quasi in tempo reale: in dieci giorni la multinazionale sforna un modello di abito nuovo. Oltre 5000 nuovi prodotti ogni giorno, la maggior parte clonati; ma le denunce nulla possono contro un colosso del genere che, semplicemente, tira dritto come un rullo compressore.
Basso costo, alto impatto
Shein è letteralmente la casa di produzione della Generazione Z: la fascia di consumatori più attiva sulla sua piattaforma è difatti formata da giovanissimi, che solitamente, sono o dovrebbero essere, i più attenti all’ambiente ed ai diritti dei lavoratori. Eppure Shein di trasparente non ha nulla, l’origine dei prodotti è avvolta quasi nel mistero, i suoi dipendenti nel mondo sono uomini e donne senza volto, senza diritti ed al minimo della sussistenza. Ad esempio, nelle lavorazioni si impiega manovalanza Uiguri della regione dello Xinjiang: sono anni che Pechino perseguita tale minoranza, perchè musulmana.
Di media i lavoratori del settore tessile cinese sono costretti a turni massacranti, 17 ore al giorno, con un solo giorno libero nell’arco del mese; per non parlare delle condizioni igieniche, al limite dell’umano. La produzione è di circa 500 capi al giorno, 4 centesimi di euro per ogni prodotto realizzato.
Cotone e veleni
Una semplice t-shirt di cotone, per esser prodotta, consuma in media 2.700 litri d’acqua, (Rapporto WWF-National Geographic): il cotone è assetato, le produzioni intensive necessitano di irrigazione continua. Il problema non finisce qui, anzi: il processo intensivo richiede numerosi fertilizzanti chimici, diserbanti, esfolianti, tutte sostanze che vengono assorbite dal terreno, infiltrando le falde acquifere. I coloranti azoici, largamente usati perché hanno colori brillanti e poco costosi, rilasciano ammine aromatiche potenzialmente cancerogene (in Europa ad esempio sono vietati).
Il tessuto brillante è spesso il risultato di sostanze altamente tossiche come nonilfenoli e ftalati (rilasciati in ambiente, sono eco-incompatibili); in definitiva, i prodotti Shein contengono contengono il 95,2% di microplastiche, più piombo, PFAS e ftalati.
Ovviamente tutte queste belle sostanze possono essere assorbite dalla pelle del consumatore: il problema non riguarda solo Shein, ma anche numerose altre marche globali, quali H&M, Zara, etc.; e una volta indossate e poi buttate, dove finscono le tonnellate di vestiti? Si è calcolato che ogni secondo un camion carico di tessuti viene smaltito in una discarica o incenerito: a livello globale vengono generati 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo il 15% viene riciclato. Bell’affare, ca va sans dire.