Trieste, agli albori del ‘900, fu crocevia di tradizioni mittleuropee di gran rilievo. E in quel periodo la cittadina culturalmente asburgica, seppur di lingua italiana, vide nascere (seppur lentamente) il mito letterario di Svevo.
Italo Svevo, il cui vero nome era Aron Hector Schmitz, risultava un medio borghese di origine ebraica: a quel tempo pareva aver quasi del tutto abbandonato le sue velleità letterarie. I due romanzi pubblicati a sue spese non avevano avuto successo ed il Nostro aveva deciso d’occuparsi quasi a tempo pieno delle vernici navali della fabbrica di suo suocero.
Inghilterra mon amour
I numerosi viaggi in Inghilterra per motivi di lavoro, indussero Svevo ad assumere un giovane irlandese di belle speranze, che insegnava lingua e letteratura presso la Berlitz School, onde migliorare il proprio inglese: fu così che conobbe uno sconosciuto destinato a rivoluzionare la letteratura mondiale del Novecento, tale James Joyce. Docente e scolaro si riconobbero a pelle, affinando nel tempo una solidarietà ed un mutuo consenso: la vita li mise su binari contigui, ed una quindicina d’anni dopo la loro prima stretta di mano, erano diventati due capisaldi, ovvero Svevo (La coscienza di Zeno) e Joyce (L’Ulisse).
Sul loro sodalizio letterario molto si è scritto: da ultimo ecco un libro a firma Enrico Terrinoni (“La vita dell’altro. Svevo e Joyce”) pubblicato per la Bompiani: a Trieste i due si frequentarono, seppur gravitando in ambienti sociali differenti. Svevo aveva un piglio alto-borghese, possedeva una magione di rilievo; Joyce e la moglie erano bohemien, non frequentavano i salotti altolocati: si può dire che la moglie di Svevo conosceva Nora, la consorte di Joyce, ma a stento l’avrebbe saluta per la via.
QueGenialità e superstizione
Particolare tratto comune ai due: una spiccata dipendenza da sostanze (alcool per Joyce, tabacco per Svevo) che accorciò loro sensibilmente la vita, nonchè una cabala interiore al limite del parossismo ermetico, una vera caduta nella più prosaica superstizione: Joyce pubblicò l’Ulisse il 2 febbraio, giorno del suo compleanno; l’azione romanzesca si svolge il 16 giugno del 1904, giorno in cui aveva incontrato sua moglie Nora. Inoltre, il 13 è, per Leopold Bloom, il protagonista dell’Ulisse, il numero che rappresenta la morte: il 13 agosto del 1903 era infatti mancata la madre di Joyce. E proprio un giorno 13 (del 1928 settembre per Svevo; dell’agosto ’41 per Joyce) fu il giorno della morte per entrambi gli scrittori.
Parossismo letterario
Ormai famoso in mezzo mondo, l’irlandese volle festeggiare il successo e la pubblicazione in Francia de La coscienza di Zeno: attese per ore, ed invano, l’arrivo dell’amico Svevo con una copia personale del libro alla stazione di Gare de Lyon. Invero, non vi sono molte tracce joyciane nei libri del Signor Schmitz; in compenso Joyce ammise candidamente di essersi vagamente ispirato a Svevo per tratteggiare il suo Bloom: ebreo riluttante, figlio di una comunità internazionale come quella che animava l’austriaca Trieste, portava l’abito del mondo come la città la sciassa austriaca, palpitando comunque al sole internazionale di un’Europa vivida, all’inizio del Novecento.